martedì 9 novembre 2010

Osvaldo Piccardo e il cinema di animazione

Osvaldo Piccardo, proto-autore del cinema disegnato del XX Secolo, si formò alla Sares e poi collaborò con Carlo e Vittorio Cossio ad uno dei loro primi filmati in animazione, "Zibillo e l’Orso". Durante la Seconda Guerra Mondiale collaborò assieme al suo giovane assistente Osvaldo Cavandoli al lungometraggio di Nino e Toni Pagot "I fratelli Dinamite". Negli anni 60 venne promosso da Sandro Pallavicini capo reparto alla Incom dove realizzò, oltre a diversi importanti filmati d’autore, moltissimi celebri Caroselli per i fratelli Gavioli, ideando il personaggio di Ulisse e l’Ombra. Irrisolta rimane la questione legata alla contesa sulla paternità del celebre personaggio de "La linea" che Osvaldo Cavandoli, suo giovane aiuto animatore dell’epoca della Pagot Film, gli avrebbe preso, come testimoniato in una memorabile lettera aperta al Direttore dell’ISCA Massimo Maisetti, fondatore del primo importante Istituto di Studi sul Cinema di Animazione in Italia. Piccardo intrattenne rapporti di stima e amicizia con Bruno Munari, Gillo Dorfles e moltissimi personaggi ed intellettuali del nostro tempo, i quali spesso si radunavano a discutere i loro concetti artistici a Monte Olimpino assieme a suo fratello Marcello.

Mario Verger ha curato la prima retrospettiva dei film di Bruno Munari e Marcello Piccardo nel 2000 al MatitaFilmFestival, e nel 2002, la retrospettiva su Osvaldo Piccardo, per i suoi novant’anni, grazie a Chiara Magri, Direttrice del Dipartimento della Scuola Nazionale di Cinema, presso la GAM (Galleria Arte Moderna) di Torino.

DIAVOLO DI UN PICCARDO
Osvaldo Piccardo il pioniere di Monte Olimpino
di Mario Verger
20/05/07

Fin da ragazzo avevo letto di Osvaldo Piccardo e mi aveva colpito che già a diciotto anni fosse al fianco dei Cossio a lavorare a "Zibillo e l’Orso". A Roma, dove aveva diretto dal 1961 il reparto della Incom, era ancora vivo il ricordo di questo straordinario pioniere della cinematografia a Passo Uno. Contattai Lello Fantasia, animatore della Incom, il quale, in ricordo, aveva ancora sul proprio tavolo di lavoro un vecchio Bollettino ISCA interamente dedicato alla diatriba sorta fra Piccardo e Cavandoli circa la paternità de "La linea". Fantasia, che sapeva che Piccardo si era trasferito dalle parti di Monte Olimpino, mi consigliò di contattare a Milano Vittorio Sedini, primo collaboratore di Piccardo alla Incom. Sedini, che conoscevo bene perché negli anni 70 firmò per Rai2 il serial Mariolino, fu molto cordiale mettendomi immediatamente in contatto con l’anziano capostipite dell’animazione italiana. Piccardo, che da anni viveva con la moglie Eva a Rocca D’Arazzo, in provincia di Asti, fu molto contento di conoscermi, rimanendo peraltro stupito dal mio entusiasmo verso i pionieri del cinema disegnato. Per anni gli promisi di andarlo a trovare ma non vi fu l’occasione; fra l’altro nel 2000, al MatitaFilmFestival organizzai, suggerito dall’interesse risvegliatomi da Adriano Aprà e Bruno Di Marino, una retrospettiva interamente dedicata alle opere del fratello, Marcello Piccardo, realizzate negli anni 60 assieme a Bruno Munari. In quell’occasione conobbi il nipote di Osvaldo, Andrea Piccardo, una persona simpaticissima che mi fece omaggio di un prezioso volumetto (1) scritto dal padre prima della sua scomparsa contenente i ricordi di Monte Olimpino. Due mesi dopo, nel Novembre del 2000, fui invitato a presentare "Cacasenno il piccolo grande Eroe" in concorso al TorinoFilmFestival e in quell’occasione mi fermai per il week end a Rocca D’Arazzo da Piccardo. Cosa curiosa è che in quell’occasione, con Marco Giusti in giuria ed Enrico Ghezzi con la sua inseparabile telecamera, oltre ad ospiti come Irene Grandi, Loredana Bertè e Asia Argento, il Festival promuoveva anche un filmato monografico che si avvaleva della consulenza di Maisetti dedicato al celebre "ideatore" de "La linea", Osvaldo Cavandoli.
Ricordo ancora Cavandoli, festeggiato da tutti, in uno dei più accreditati festival internazionali, diretto da Steve Della Casa e presieduto dall’anziano Gianni Rondolino. Non dissi nulla a Piccardo, ma mi divertiva comunque il fatto che, a distanza di poche ore, avevo davanti a me colui che a detta di molti era il vero creatore di Mister Linea. Osvaldo ed Eva mi vennero a prendere nel pomeriggio tardo alla stazione di Asti ed erano una coppia di vecchietti assai affiatata. Osvaldo aveva quasi novanta anni: alto, magro, viso allungato con barba, un cappello sulla testa, un tipo dall’aria vagamente ascetica ma ormai anzianissimo; Eva, più giovane, più bassa di lui, era una bella signora dai capelli argentati raccolti dietro la nuca. Piccardo, nonostante l’età, guidava ancora e salimmo nella sua Citroen AX rossa, per dirigerci con la pioggia verso Rocca D’Arazzo. I coniugi erano due persone straordinarie, vivevano soli in una casetta, da un lato sinistra dall’altro simile a quella di Biancaneve e i sette nani, con mobili in legno decorati da lei con colori tenui come rosa, violetto e azzurro. Per cena preparò tutte cose genuine mentre Osvaldo mi raccontava la storia dei suoi inizi, di quando a diciotto anni partì da Lodi per Milano per lavorare alla Sares con Biraghi a "La città del Duemila", ed in seguito dai Cossio alla Milion Film dove divenne primo disegnatore animando "Zibillo e l’Orso". Durante la cena i Piccardo mi raccontarono tutta la storia della loro unione. Eva era corteggiata da un uomo che le inviava delle lettere meravigliose, in realtà scritte da Osvaldo; a lei piacevano immensamente ma non amava veramente il fidanzato, cui teneva esclusivamente per l’intensità dei pensieri che le scriveva e provava invece un sentimento per Osvaldo; dopo la guerra ci fu il chiarimento, tornato dal fronte gli rivelò che l’autore delle missive era proprio lui e i due condivisero insieme il resto della loro esistenza. La storia risaliva al 1938 e Piccardo sembrava parlarne come di una cosa accaduta il giorno prima. Dopo cena, andammo al piano di sopra e parlammo a lungo riguardo al mondo dell’animazione italiana. Eva mi preparò una bellissima stanza per dormire, che mi faceva un po’ paura, con un letto alto in ottone, ed un grande materasso rigido con una vistosa coperta di lana ricamata da lei stessa. La mattina dopo, Osvaldo era già in salotto a leggere i giornali, in quanto ogni mattina andava in macchina a prendere i quotidiani che riceveva in abbonamento. Poi mi portò su, in un’altra stanza, dove vi erano tutti i suoi ricordi: da una cassettiera in legno estrasse delle grosse celluloidi; diverse tavole risalenti agli anni 30, disegni di Ulisse e l’Ombra, altra sua creazione per la Gamma Film, fino a quelli per la Incom dov’era caporeparto. Mi mostrò anche delle celluloidi originali della Disney che gli furono regalate quando andò per conto della Incom a far visita agli ‘Studios’ d’oltreoceano, dietro richiesta di Pallavicini. Mi mostrò anche delle foto dell’epoca scattate alla 3P Films. Verso sera, Osvaldo ed Eva mi accompagnarono nuovamente alla stazione di Asti per prendere il treno, e salutandoli, li abbracciai forte, come persone di famiglia. Lo stesso Osvaldo, sentì spontaneamente il bisogno di farlo, perché entrambi legati dall’amore verso questa straordinaria forma d’arte che è il cinema disegnato. Ultimamente, parlando con Chiara Magri riguardo l’articolo su Piccardo che compiva novant’anni, mi propose di rendere omaggio al pioniere di Monte Olimpino dedicandogli una personale in occasione degli Incontri Arte Animazione da lei curati.
La cosa oltre a farmi ovviamente piacere mi colse alla sprovvista; desideravo da sempre fare una retrospettiva su Osvaldo Piccardo, che conoscevo da tempo; due anni prima avevo organizzato quella di suo fratello Marcello e di Munari e pensavo che ormai non sarebbe più capitata l’occasione di organizzare quella a cui, per certi versi e vicinanza di genere, tenevo di più. Telefonai ai Piccardo per comunicare loro la ‘bella notizia’ e ne furono al momento entusiasti, anche se, mi disse Eva, vista l’età, sarebbe stato impossibile per Osvaldo muoversi da Rocca D’Arazzo a Torino. Qualche giorno dopo anche Chiara telefonò loro per il reperimento dei film, e poche ore dopo, anch’io chiamai nuovamente i Piccardo: Eva mi disse che “quella signora oltre a sembrargli molto preparata, aveva un tono di voce così cordiale ed entusiasta”, tanto da far venire ad entrambi il desiderio di presenziare. Non so che cosa fosse accaduto ma rimasi estremamente stupito per come, dopo la telefonata di Chiara, vidi in loro ribaltata completamente una situazione che fino al giorno prima sembrava, al contrario, persa in partenza. La presentazione su Piccardo si rivelò un grosso successo, riuscendo a “sciogliere” il compassato pubblico torinese. Iniziammo, per motivi di orari, Chiara ed io, al microfono, sapendo che Piccardo stava venendo da Asti. Parlai del pioniere di Monte Olimpino, ripercorrendone i duri inizi, la collaborazione coi Cossio, ed in seguito con Pagot, fino a quando era diventato direttore del reparto animazione alla Incom. Ma ecco che dal fondo della sala un brusio faceva capire che Piccardo era finalmente arrivato; in maniera un po’ trionfalista, lo raggiunsi, accompagnandolo sotto braccio, tra gli applausi, per raggiungere Chiara Magri di fronte al pubblico. Osvaldo, tra me e Chiara, anzianissimo con la barba lunga e un cappellino da eremita, era più contento e arzillo che mai: ad ogni frase che diceva, il pubblico, che aveva da poco ascoltato la storia della sua vita, applaudiva partecipe. Piccardo disse anche la sua stranissima teoria trinitaria, fra un coro di applausi di un pubblico che aveva conosciuto il più anziano cartoonist italiano. Applausi continui a non finire fino alla proiezione dei suoi filmati che riscossero un notevole apprezzamento. Devo dire che la mostra su Osvaldo alla GAM fu per tutti un’enorme soddisfazione, soprattutto per lui che, a detta di Eva, era contentissimo nel vedere quanti lo stimassero, ma devo essere grato soprattutto a Chiara Magri che, grazie alla sua preparazione e al suo entusiasmo, mi aveva permesso di realizzare un “sogno” che pensavo ormai svanito per sempre. Purtroppo, quella fu l’ultima volta che vidi Osvaldo Piccardo e quella alla GAM fu la retrospettiva finale del pioniere di Monte Olimpino, poiché, neanche un anno dopo, il più anziano capostipite dell’animazione italiana ci lasciò per sempre, ricordato come il precursore del cinema disegnato del XX Secolo.

Un altro capostipite dell’animazione italiana è Osvaldo Giovanni Virginio Piccardo, un personaggio alquanto "misterioso" (e che coltiva il mistero), come aveva scritto anni addietro Ermanno Comuzio, che iniziò giovanissimo negli anni 30 prendendo parte al "Cuorcontento" di Biraghi e al fianco dei Cossio in "Zibillo e l’orso". Nato a Genova nel 1912, fratello di Marcello, sin da bambino ebbe la vocazione del disegno animato. Piccardo definito da un raffinato studioso quale Fiorello Zangrando come "il signorile autore”, qualche anno or sono mi scrisse una preziosissima lettera in cui raccontava tutti i ricordi dei suoi inizi che costituisce una documentazione unica e finora inedita sulla storia del cartone animato a Milano. Ecco alcuni brani raccontati dallo stesso pioniere ligure, Osvaldo Piccardo: Perché il disegno animato?
"Ve lo spiego: vi racconto un sogno di quando avevo 7 o 8 anni.
Il sogno del diavolo soccorritore: mi è rimasto impresso e mi ha svelato nel tempo il senso del paradosso, che è poi strettamente legato all’umorismo. Il sogno è questo: da ragazzino io giocavo volentieri nel solaio di casa. Era ampio e non troppo buio e io potevo saltellare fra le grate degli scomparti.Una notte sogno di essere lì e a un certo momento sento uno scalpiccio strano alle mie spalle; giro la testa e vedo il diavolo che corre verso di me come per acchiapparmi. Scappo a perdifiato ma lui corre più di me, mi raggiunge e mi solleva fra le sue braccia. Terrorizzato io guardo alle sue spalle e vedo un topolino che rincorre a sua volta noi due. Succede allora che il diavolo ha paura dei topolini e per di più è un tipo soccorrevole: in effetti aveva voluto proprio salvarmi. Come vi ho detto questo è il motivo profondo della mia vocazione professionale: che usa il paradosso come strumento principe.
Un altro dei motivi a favore del film di animazione è dovuto alla circostanza che a 13 o 14 anni abitavo coi genitori a Codogno e frequentavo, da esterno, il collegio Ognissanti. Il collegio offriva ogni sabato agli alunni e ai parenti un pomeriggio di cinema al quale io non mancavo mai. C’erano cow boys famosi come Tom Mix e William Hart e magari i comici Cretinetti e Polidor, ma un sabato mi apparvero, a sorpresa, delle immagini in movimento che mi colpirono con effetto tanto dirompente che imprevisto. Si trattava di "Mio Mao", il "magico" personaggio di Messmer, come si legge nei libri sull’ animazione. In quel filmetto Mio Mao camminava su un filo teso per aria e quando il filo si interruppe lui continuò nel suo camminare, cadendo soltanto quando si rese conto di camminare nel vuoto. A questo punto io afferro il senso del paradosso, mi ricollego al diavolo del mio sogno e scopro, insieme, la mia vocazione di umorista. ‘Questo è il lavoro che voglio fare’ mi dico".
Nel 1930, terminati gli studi di ragioneria, partì da Lodi verso Milano in compagnia dell’amico pittore Fausto Locatelli, che poi insegnerà all’Accademia di Brera e, durante il viaggio, venne a sapere dalla fidanzata del suo amico che proprio a Milano esisteva una delle prime case di produzione di disegni animati. “Bene, in uno dei primi viaggi in treno da Lodi a Milano, la ragazza del Fausto che viaggia con noi si ricorda improvvisamente che un suo compagno d’ufficio sa dove c’è qualcuno che fa il disegno animato a Milano.
Lo stesso giorno io attraverso a piedi il ponte della Ghisolfa in direzione Bovina, periferia est della città: al termine del ponte, a destra, c’è uno spiazzo, e nello spiazzo un vecchio edificio imponente sormontato da una scritta vistosa: ‘MILANOFILM’. Un residuato degli anni ’10, mi dico. Entro e mi affaccio a un capannone gigantesco che riconosco come un set cinematografico, coi proiettori accatastati in un angolo, certamente a riposo da anni. Non oso entrare nel set e mi infilo per un lungo corridoio semibuio raggiungendo la porta aperta di un ufficio al cui tavolo siede un signore anziano dall’aria pacioccona. Evidentemente qualcuno l’ha avvertito del mio arrivo perché mi dice:"Vada più avanti!". Proseguo nel corridoio e sbuco in una stanza nella quale tre giovani sui vent’anni siedono a tre tavoli di animazione. Mi rendo conto di essere arrivato dove volevo e sono piuttosto commosso.
Umberto Biraghi, detto Berto, pittore cubista nonché pubblicitario, sfoglia il mio book pieno di scimmiottelli in bianco e nero nel mondo di Mio Mao, e mi dice che farà mettere un altro lavoro. Anche Ferruccio Vezzosi, pittore romantico da Pietrasanta salito al Nord in cerca di fortuna , e il terzo giovane di cui non ricordo il nome, guardano i miei disegni e sono d’accordo. Ma è ora di pranzo e usciamo per mangiare. I guai cominciano quando capisco che si sta lavorando a un disegno animato dal titolo "‘La città del Duemila", una specie di "‘Metropolis" zeppa di scure torri metalliche e di strade volanti. C’è un personaggio protagonista, Cuorcontento, ma non ricordo cosa se ne sia fatto. Ci sono però decine di corpuscoli neri che sarebbero i cittadini della città futura.
Dico subito a Berto che non si può fare un disegno animato come questo: è troppo complicato, opprimente ma soprattutto assolutamente privo di umorismo. Non riesco a convincerlo; anzi mi affida proprio quei corpuscoli neri che io dovrei animare in quella specie di avveniristico inferno dantesco. A proposito, dimenticavo di dire che nessuno di noi quattro conosceva la tecnica di animazione. Non ho mai visto in quel laboratorio una serie di disegni finita e numerata, né i rodovetri pronti per la ripresa. Non ho mai visto, nemmeno l’ombra di una verticale, l’apparecchiatura da ripresa dei disegni animati. Non parliamo poi del sonoro: che da pochi mesi soltanto rallegrava le prime proiezioni in America.
Devo dire, però, che nel sottotetto della nostra Casa cinematografica, all’estremità di scaffalature colme di scatole di film, sicuramente comiche degli anni del primo cinema italiano (Cretinetti e Polidor), c’era una piccola officina nella quale un ingegnere lavorava al tentativo di fare uscire suoni dal proiettore.
Io avevo con me la mia chitarra: un giorno l’ingegnere mi chiede un provino sul set: gli suono uno dei miei pezzi.
Il giorno dopo, all’audizione, solo qualche stridio indecifrabile.
La penosa situazione che ho descritto precedette per alcuni mesi senza novità di rilievo e io stavo proprio per decidermi alla fuga quando il signore anziano dall’aria pacioccona, amministratore delegato della MILANOFILM, passò da un giorno all’altro a miglior vita determinando la conclusione della mia prima esperienza di disegno animato".

Così si concluse la primissima esperienza lavorativa di Piccardo alla Sares. Subito dopo si dedicò alla caricatura (“Illustrazione Italiana”) e a vignette umoristiche decorative per la U.R.I.C., un’ elegante rivista di calzature di lusso. In seguito venne assunto dai Cossio alla Milion Film dove divenne presto primo disegnatore.

"E veniamo al ’30, l’anno dell’incontro con la ‘Milion Film’ dei fratelli Carlo e Vittorio Cossio.
Carlo era reduce da un’ esperienza di animazione in Francia dove era stato per due anni, così che alla ‘Milion’ io imparo finalmente le regole e i trucchi del mestiere animando il personaggio più facile, Zibillo, del lungometraggio "Zibillo e l’orso".
L’ambiente era ordinato e simpatico, coi tavoli d’animazione messi in fila verso le pareti e dotati di poltroncine girevoli in pelle arancione. Ricordo gli animatori Nando Corbella e Colman e però faccio amicizia soprattutto con Vittorio: il nostro lavoro di ideazione prosegue sul sedile di poppa del tram di periferia che ci porta a colazione per riportarci allo studio. E voglio accennare qui al problema del mangiare a Milano che non era poi così semplice. Non tanto a causa di Milano quanto al fatto che sia alla ‘Milano Film’ che alla ‘Milion’ le paghe erano piuttosto basse: la ‘Milano Film’ ere quello che era e la ‘Milion’ aveva come finanziatore un salumiere amante dei cartoni ma parsimonioso coi soldi.Il segreto era quello di andare in latteria, piuttosto economica, e di ordinare un bel piatto di riso al burro e due uova al tegame. Il problema era però che il riso lo ordinavamo a mezzogiorno e le uova la sera. Certo eravamo giovani e avevamo il sacro fuoco dentro. La preparazione del film dura alcuni mesi: io mi divertivo molto, ma soprattutto alla visione delle parti realizzate. A fine lavoro Vittorio mi chiede se conosco un musicista adatto per la colonna sonora e io gli suggerisco subito un altro dei miei amici di Lodi, Luigi Molina, detto Gino, violinista dell’orchestra della balera all’aperto che guardava verso la provinciale per Milano. Molina mi aveva fatto conoscere il jazz, che era appena arrivato a Lodi, e insieme avevamo trascorso a casa sua serate indimenticabili: lui inventava canzoni col suo violino, io, visto che non sembrava poi una cosa del tutto impossibile, ne inventavo a mia volta con la mia chitarra, mentre un terzo amico musicista di cui purtroppo non ho più ricordato il nome, riportava diligentemente in bella scrittura le nostre composizioni, se così si può dire. Resta il fatto che Luigi Molina adattò una bella colonna musicale a "Zibillo e l’orso" e ricordo ancora molto bene una stanzetta di trenta metri quadri con le pareti imbottite, (era la prima sala di registrazione dei fratelli Donato) e il piccolo gruppo jazz che provava i pezzi della colonna. Ricordo altresì che, poco convinto circa le doti del direttore dell’orchestrina, Molina gli tolse di mano la bacchetta e portò a termine la registrazione con la sua carica di artista. Come si sa, i pionieri sono quasi sempre dei dilettanti. Più ancora di questa circostanza ricordo però il giorno della presentazione del nostro "Zibillo e l'orso" in un lussuoso cinema del centro. Se non erro si trattava della prima serata della prima edizione del Festival del Cinema Italiano inaugurato a Milano con il film "La canzone dell’amore". In sala non c’era molto pubblico. Al termine del film d’apertura noi della ‘Milion Film’ e una decina di amici lodigiani e milanesi, aspettammo con ansia l’apparizione di Zibillo sul grande schermo. Zibillo apparve, e anche l’Orso, ma la musica di Molina era soltanto una sequela di gracchiatine del tutto incomprensibili. Il chè non impedì al nostro piccolo gruppo di applaudire con roboanti scrosci di mani e di voci mentre lo scarso pubblico si avviava distrattamente verso l’uscita".

Dopo la guerra entrò a far parte dell’equipe di Pagot, che conosceva da tempo, prendendo parte alla lavorazione de "I fratelli Dinamite". Dopo la prima esperienza alla Sares, Piccardo, infatti, occupandosi di illustrazioni, aveva conosciuto il disegnatore friulano Nino Pagotto.

"Ogni tanto passo a trovare Pagotto, uno dei miei miti quali Antonio Rubino che avevo scovato alla Mondadori, e Giovanni Manca , il prestigioso vignettista del Guerin Meschino.
Con Pagotto diventammo amici e ci ritrovammo, 15 anni più tardi alla sua ‘Ars Film’ per il lungometraggio "I fratelli Dinamite". Guarda caso, a me spetta di animare il diavolone".

Al lungometraggio di Nino e Toni Pagot partecipò anche il fratello di Osvaldo, Marcello; mentre il giovanissimo Osvaldo Cavandoli era l’aiuto animatore di Piccardo.
In seguito si mise in proprio fondando a Milano la Piccardo Disegni Animati, con un simpatico diavoletto come mascotte su carta intestata disegnata da Munari.

Nel 1951 Piccardo ebbe un importante commissione pubblicitaria dalla Svizzera.
Quello che segue è l’elenco di filmati per Zurigo (Standard Film) per la Nestlé degli anni 1951-53, che iniziò con la confezione di un cortometraggio per Pirelli," Fantasia di una Giornata di Pioggia" (mt.80). All’epoca Il colosso multinazionale della Nestlé intendeva lanciare il suo nuovo prodotto Nescafé in tutto il mondo. Piccardo pensò di illustrare il fascino irresistibile della nuova bevanda nei diversi paesi del globo terrestre. Bisogna riscontrare il fascino delle sue prime pubblicità, ancora non intrise dallo stile “secco” degli anni ‘60 ma legato ancora ai clichés antichi. Stile che si può felicemente ravvisare in "Un Arome fait le tour du monde" (mt.90), Standard film per la Nestlé, in cui vi sono personaggi di ogni continente giocati con eccellenti colori tonali. Interessante è la breve sequenza ambientata in Africa dove una giovane e affascinante Zulu balla al ritmo dei tamburi, muovendo natiche e seno, possedendo -nel disegno- quella geniale sintesi e quell’esasperazione dei movimenti (che spesso ponevano esageratamente il personaggio in primo piano), che risaliva senz’altro all’esperienza acquisita dai Pagot durante la lavorazione de "I fratelli Dinamite".
A conferma di quanto sostengo, in una lettera inviatami dalla moglie, Eva Piccardo fa delle osservazioni sulla pubblicità in questione. Conclude le sue impressioni sul suddetto filmato scrivendo:Di rilievo la scioltezza e lo humour dell’animazione e l’originalità dei disegni, senza che si faccia menzione a Pagot. E’ interessante notare che ‘scioltezza’, ‘humor’ e ‘originalità’ sono le principali caratteristiche ravvisate in tutti i testi di cinema di animazione nello stile di Nino Pagot, e che quindi Osvaldo Piccardo abbia saputo prendere quella vena pirotecnica che lo caratterizzava.
Seguì "Diavolo di un Diavolo" (mt.90) per Benelli Superiride, nei cui titoli appare già un nutrito gruppo di collaboratori d’élite: consulenza grafica di Bruno Munari, organizzazione generale Osvaldo Piccardo, animazione Marcello Piccardo e sceneggiatura di Attilio Giovannini. Il " Super Faust del DDT" della ditta Ruggero Benelli trovò ottima interpretazione nella pubblicità di Piccardo. Egli infatti preferì la figura del diavolo alle altre, come mi raccontò lui stesso.
A parte queste “curiose” considerazioni, la pubblicità in questione è interessantissima poiché si intravedono quegli elementi che caratterizzarono l’animazione italiana degli anni 30 e 40, ravvisabili in quella sontuosità di movimenti per cui si utilizzavano centinaia di rodoid per rendere l’effetto più “morbido” ed animato. Inoltre, interessante è la lucidatura dei personaggi eseguita non con il tratto a china nero, bensì utilizzando un inchiostro più scuro del colore sottostante; tecnica laboriosa usata fino al dopoguerra. Qui i colori sono corposi e massicci, mentre le scenografie a gradazioni tonali.
Seguirono, sempre per Zurigo (Standard Film) una serie di brevissimi spot in movimento chiamati “Diaviva”, che preludevano ai filmati pubblicitari cinema antecedenti Carosello: "Alì Babà prend le Café" (mt.12), "La Gelérie des Ancetres" (mt.12), "Feux d’artifice" (mt.12), "Etoiles porte bombons" (mt.12), "Neon" (mt.12), "Lipstik" (mt.12), "Une drôle de façade" (mt.12) per Maggi, "Une montre autour du Monde" (mt.8) per Ardath Watch, "Pétits Chats au lit" (mt. 10) per Beka. E una serie di brevissimi short di carattere pubblicitario per Omega, di 12 mt. cadauno, quali: "Sports", "Avions", "Desért", "Planètes", "Costellations", "Poisson".
In seguito, supportato dai capitali di Maria Pirelli, Piccardo fondò la 3pFilms (Piccardo – Pellegrini – Pellegrini), il cui staff era di prim’ordine con la partecipazione di raffinatissimi e innovativi personaggi della cultura milanese del tempo: Elena Pellegrini, Massimo Vignelli (oggi tra i massimi designer americani), Raffaele Carrieri (regista, figlio di Mario), Memmo La Rocca (noto direttore della fotografia), Dario Fo (attore e sceneggiatore), Giuseppe Trevisani, Fiorenzo Carpi fratello di Cioni, Marcello Piccardo (giornalista, sceneggiatore e illustratore di libri).
Tra il 1953 e il 1961 realizzò diversi cortometraggi pubblicitari tra cui, "Uomini contro il dolore", "A tutte le donne del mondo".
Nel successivo "Il Processo" Piccardo giunse ad un disegno altamente innovativo.
La pubblicità per il Tovagliato Santoflex, nei cui titoli compare la firma di Dario Fo come sceneggiatore, è straordinaria poiché vi si possono registrare quelle connotazioni dell’animazione classica abbinate ad alcuni intuizioni moderne. Non più linee curve né particolari fronzoli stucchevolmente disneyani ma la ricerca di forme nette, lineari, decise, ma non per questo meno comunicative. Il collegio di giudici è altresì eloquente sia nelle forme legnosamente tondeggianti sia nei colori freddi che giocano su studiate armonie di linee e di forme. Osvaldo Piccardo, che ha il suo studio a Milano, è tra i giovani disegnatori quello che forse si è spinto più lontano alla ricerca del segno e della grafia che molte volte ricordano gli apprezzabili risultati dell’U.P.A. Piccardo dà alle sue figure una forma funzionalistica e sembra privarle di corpo e di consistenza ricavandone i contorni liberi nello spazio come se le scenografie fossero pure presenze astratte (2), aveva giustamente scritto Walter Alberti.
Piccardo gioca in un geniale insieme di sintesi grafiche: un disegno sapientemente stilizzato accompagnato da movimenti morbidi, uno stile asciutto e simbolico per pubblicizzare il Tovagliato Santoflex, ne fanno un artista poliedrico che si esprime, in un continuo misto, fra analisi e sintesi, fra realismo e simbolo, fra antico e moderno. Giulio Cingoli, pioniere della seconda generazione, nel capitolo da lui scritto "Il cartone animato lombardo dalle origini agli anni ‘70", in una recente pubblicazione ne ricorda lo spessore scrivendo: "Una figura importante con cui sono venuto a contatto in quel periodo è quella di Osvaldo Piccardo. Lo stile di Piccardo era lontano anni luce da Disney, ma di Disney aveva la capacità di creare figure affettive, figure che comunicavano simpatia, antipatia, solidarietà o repulsione. Con uno stile essenzialissimo, Osvaldo e suo fratello Marcello hanno sempre dato anima a ogni particolare del loro spettacolo, così che tutto ciò che si muoveva sullo schermo appariva vivo e umano (3)".
"H2O" è un film ricco di trovate e di tecniche eterogenee, con il commento musicale composto da Fiorenzo Carpi. Piccardo è stato sempre un precursore con la voglia di perscrutare nel futuro, avendo l’unico torto di anticipare i tempi: se nel film precedente si sgancia dall’animazione anni 40, in quest’ultimo prelude ad un genere sperimentale che si svilupperà un decennio dopo in cui è evidente l’ausilio di una collagistica unita ad elementi di fotoriproduzioni.
In "Miraggi" il suo stile diviene definitivamente ‘asciutto’ e maturo. Visualizzazione efficace ed eloquente: gli elementi sono pochi ed efficaci: il deserto, il sole rovente e un esploratore stremato. Il film rimase celebre soprattutto perché, dopo vari premi, vinse anche quello nel 1956 per la migliore trovata pubblicitaria: l’idea di un’ esploratore nel deserto , esausto dal caldo, che come miraggio trova un frigorifero ghiacciato. A questo seguirono "Lascia o cancella", "Radiomarelli", "È il marchio che conta".
Il successivo "Complessi", che pubblicizza la lavatrice moderna Zerowatt, è incentrato su una seduta psicanalitica: la paziente è invitata ad andare indietro nel tempo e ciò giova alla creatività dell’artista che crea una serie di forme che si animano in prospettiva in perfetta simbiosi con i protagonisti al ritmo di musica elettronica che dona al filmato un’ atmosfera onirica ed eccentrica. Film a cui ne seguirono altri quali "L’aumento", "Sangemini l’acqua che dona salute", "Rugiada di bosco", "Primavera dell’organismo".
Dopo aver confezionato decine di pubblicità per i fratelli Gavioli, Piccardo venne chiamato a Roma come caporeparto alla Incom. Nella sede romana trovammo attivi come animatori, Vittorio Sedini, Guido Gomas, Lello Fantasia; Paolo Di Girolamo, Giorgio Michelini, Francesco Valeriani, Franco Cristofani; i fratelli Sergio e Sandro Costa, Alfonso Mulà, Gianluigi Carancini; la capocoloritrice era Elena Boccato Guido, moglie di Gibba.
L’ambiente della Incom non era dei più felici. Piccardo una volta arrivato, trovò un’enorme disorganizzazione. Oltre ai diversi Caroselli, da realizzare con la cadenza di uno a settimana, dietro autorizzazione di Pallavicini, mise in cantiere un cortometraggio d’animazione su soggetto di Carancini, con musica di Sedini, intitolato "L’onesto Giovanni" (1961), un film interessantissimo un po’ autobiografico (Piccardo si chiama anche Giovanni) e dedicato a un grande rappresentante della Pace: Giovanni XXIII; un omaggio alla pace e non alla guerra ma ad una pace mediatica, meditata, calibrata, diplomatica.
Un film in onore al primo missile lanciato dagli americani, "Honest John", con alla base ritmo, puro ritmo. Straordinario dal punto di vista compositivo: non pupazzi come protagonisti ma mani; mani grandi, mani che indicano, mani di diverse dimensioni disegnate a tratteggio a mo’ di stampe ottocentesche: I vuoti, le attese, gli scatti che seguono a movimenti guardinghi, i dispettucci bambineschi, le rivincite e i diversivi impotenti e la prudenza carica di tensione, le scaramucce insensate e un penetrante fissarsi negli occhi come a prevedere e anticipare le mosse dell’ altro. E da ultimo la grandiosità incalzante della contesa, il duello finale, la resa dei conti, delle due manone improvvisamente troppo grandi, immense, che non rispettano più il progredire costante e prevedibile della misura delle manine che le hanno precedute, aveva osservato Eva Piccardo.
Suono e immagini mai l’un l’altro pleonastici ma carichi di una raffinata e costante suspance in un crescendo apocalittico di grande effetto.
A questo ne seguì un altro, "Gigetto carogna e il capostazione" (1963), realizzato sempre nella sede romana della Incom, incentrato sugli antagonismi già presenti in "Ulisse e l’Ombra". Al posto del piccolo signore con i baffi e paglietta vi è un simpatico capostazione dalla forma a barilotto, che non si trova di fronte alla sua ombra ma ad un cattivo spiritello. Anche qui il vero protagonista del cartoon è il vispo diavoletto che fa di tutto per far perdere la pazienza al capostazione. Notevoli i binari su fondo neutro e delineati da grandi linee curve decise che ricordano fortemente lo stile liberale di Marcello Piccardo; al contrario vennero eseguite dallo scenografo della Incom, Alfonso Mulà che era rimasto affascinato dalle illustrazioni del libro pubblicato da Einaudi, "La balena Giona" realizzate da Marcello Piccardo, appunto, tanto che decise di adottarne lo stile.
Notevole è il senso compositivo: le linee e i colori acquistano maggior valore; come ne "Il processo" in cui le forme definivano le figure, il simbolo è qui espresso nella valenza di pochi ma circoscritti colori, che troveranno maggior forza d’espressione in "Egostrutture". Sempre alla Incom si mise in cantiere il successivo, "L’asfodelo" (1964). Piccardo si accorse delle ottime qualità di Lello Fantasia affidandogli le animazioni dell’omino squadrato dalla testa tondeggiante protagonista del film. Il segno qui ha carattere proprio giocando fortemente sulla modulazione; non vi sono particolari: il personaggio è di fattura primitiva, come scolpito ma trasparente, definito da un segno talvolta sottile fino ad esser nutrito di inchiostro su fondi neutri che talvolta aggettano una luce cromatica accendendo il viso del timido omino.
Altri grandi personaggi usciti dalla Gamma Film furono "Ulisse e l’Ombra" la cui ideazione si deve al bravo Osvaldo Piccardo. Ulisse e la sua ombra rappresentano, come mi raccontò Piccardo, una metafora della nostra coscienza. Gli stessi episodi sono andati, lungo il loro svolgersi, in una visione più onirica che narrativa.
Il personaggio di Ulisse, dai baffoni puntuti e la “paglietta”, e la sua ombra, così dissociata ma indissolubilmente salda alle sue gambe puntute, non rappresentano altro che i poli estremi di una contraddizione. Sono due esseri a sé stanti ma che comunque non riescono più a staccarsi. L’Ombra più che ‘ombra’ sembrerebbe quasi la sua coscienza interiore, uno spiritello che gli vive accanto pensandola tutta all’opposto del suo appartenente.
Soprattutto non sono da scordare alcuni spazi pubblicitari a sé stanti come "Intermezzo", "Girotondo", "Gong", "Doremì", "Break", ecc. Particolarmente riuscite le piccole sigle di "Arcobaleno" e di "Tic-Tac", realizzate nella metà degli anni 60 da Piccardo, trovando ancora una volta, un’ ottima sintesi delle linee, giungendo ad un disegno ‘asciutto’ assai piacevole.
Chiusa la sede della Incom, l’intero patrimonio venne acquisito dall’Istituto Luce e Piccardo tornò a Milano dove continuò a svolgere la sua attività per Gavioli. Per la Osram realizzò un interessantissimo filmato dal vero a silhouettes nere negli stabilimenti milanesi della Gamma, curandone peraltro soggetto, sceneggiatura e regia. Piccardo, amante della contrapposizione, (vedi i personaggi di "Gigetto carogna e il capostazione", "Ulisse e l’Ombra" e le tematiche espresse ne "L’onesto Giovanni"), adattò sapientemente alla pubblicità una tecnica che evidenzia immediatamente i due opposti: ombra e luce, in una continua dinamica complementare.
Piccardo infine volle giungere alla ‘summa’ della propria ricerca ideando un personaggio definito dal suo stesso profilo. La diatriba in questione, se così è giusto dire, sorse pubblicamente in seguito ad un articolo pubblicato dalla neonata Isca (4) a firma di Massimo Maisetti, interamente dedicato a Cavandoli quale ideatore de "La linea".
Piccardo, lungi da ogni forma di polemica, inviò una lettera al Presidente dell’Isca nella quale spiegava esaurientemente le circostanze che lo portarono, a suo dire, all’ideazione di tale personaggio.
Ecco la lettera che Osvaldo Piccardo inviò alla redazione dell’Isca: In relazione al vs. servizio-intervista dal titolo "UN AUTORE ITALIANO: OSVALDO CAVANDOLI", firmato Massimo Maisetti, desidero rettificare le informazioni in esso contenute comunicandovi che l’idea della LINEA, così come realizzata da Cavandoli, è nata nelle seguenti circostanze: il giorno 11 aprile 1964, a Milano, il produttore, signor Brunetto Del Vita mi incaricò personalmente di fornirgli un’idea e dei disegni illustrativi per uno sfruttamento cinetelevisivo del prodotto Fibra Leacril.
Ero a quell’epoca direttore Film d’Animazione della Incom in Roma: il giorno 13 aprile riunii nel mio ufficio il gruppo creativo del reparto, nelle persone di Vittorio Sedini, Lello Fantasia e Guido Gomas, comunicando loro i termini della richiesta Del Vita.
Nei due giorni successivi si riunì la redazione e fu studiato il problema: ne venne fuori, in naturale pertinenza con l’oggetto (un elastico filo di fibra sintetica, indicato con lo slogan: Leacril, la fibra viva), l’idea di un omino disegnato col solo contorno lineare e prolungato a formare una linea tesa orizzontalmente da un capo all’altro del quadro.
Secondo l’intenzione creativa, l’omino avrebbe raccontato sinteticamente le cose più varie a mezzo della linea, la quale si sarebbe prestata elasticamente ad ogni suggerimento della fantasia.
L’idea venne descritta in forma letteraria e illustrata da alcuni disegni indicativi:il tutto consegnato da me al signor Del Vita il giorno 17 aprile 1964 in Milano.
Il giorno 27 successivo una telefonata del signor Del Vita a Roma mi informava che l’idea risultava gradita al cliente: malgrado ciò la cosa non ebbe seguito per motivi che non conosco, mentre il signor Del Vita tratteneva presso di sé soggetto e disegni, tuttora in sue mani.
Non invoco la famigerata legge sulla stampa, semplicemente fidando, per quella che mi sembrerebbe da parte Vostra una doverosa pubblicazione di quanto Vi comunico, nell’intestazione che abbiamo voluto dare al nostro bollettino trimestrale.
Le mie precisazioni, d’altronde, non negano per se stesse le circostanze indicate da Cavandoli, solo che anche accettandole per buone non mi pare possa parlarsi di nascita ma piuttosto di quell’evento ben più importante e straordinario che va sotto il nome di Risurrezione.
Non voglio però nascondere qualche mio dubbio su tutta la questione, non riuscendo a spiegarmi come abbia potuto uscire una linea da una pentola, specie poi ove il diavolo si sia preoccupato di applicarvi un coperchio a chiusura ermetica (5).
Gianni Rondolino alla p. 302 del suo famosissimo libro "Storia del cinema d’animazione", volle in qualche modo ricordare la possibilità che l’idea de "La linea" fosse di Piccardo pur riconoscendone la non assoluta originalità, scrivendo: "L’idea di costruire un raccontino, o meglio una serie di situazioni comiche o grottesche, utilizzando una semplice linea stesa da un capo all’altro dello schermo che assume via via le forme d’un personaggio divertente e di vari oggetti, pare sia di Osvaldo Piccardo e risalga al 1964. Fu tuttavia Cavandoli che la utilizzò nel 1968 per alcuni caroselli pubblicitari e il successo di quei piccoli spettacoli lo spinse a realizzare dei film a soggetto in cui il personaggio lineare deve di volta in volta superare le più impreviste difficoltà. […] E’ probabile, data la complessa e varia personalità di Piccardo, e il suo continuo sperimentalismo che il progetto di un film pubblicitario basato sullo sviluppo narrativo di una semplice linea sia suo (come ha recentemente dichiarato), anche se l’idea non è del tutto originale e può farsi addirittura risalire a Cohl e al suo disegno lineare continuamente mutevole. In ogni caso è indubbio che Piccardo, nel panorama del cinema d’animazione italiano, costituisce un caso un po’ particolare proprio per i suoi molteplici tentativi in direzione d’un superamento del disegno animato tradizionale e d’un recupero originale di esperienze d’avanguardia". (6)
In seguito andò a Monte Olimpino nei pressi di Como, portando le sue idee a maturazione nel successivo "Egostrutture" (1970) (7), basato su una personale visione mistico-esistenziale (8), com’era stato definito da Giannalberto Bendazzi nella sua straordinaria "Bibbia del cinema d’animazione", Cartoons. In realtà il film era l’epilogo di un progetto portato avanti assieme a suo fratello Marcello ed altri; in "Genesi e sviluppi di Egostrutture", spiegò che si tratta di un progetto, studiato e sviluppato per alcuni mesi, di indire una manifestazione, una specie di rassegna-mostra da tenersi a Como in sede da precisarsi, dal titolo “Struttura della Ricerca nel rapporto fra scienza e comunicazione visiva”. E’ Marcello a proporre a Osvaldo di partecipare, Munari è già disponibile, si sta procedendo alla costituzione di un gruppo di tecnici, intellettuali, artisti, critici d’arte del Comasco e di altrove.
Le parole-chiave, Struttura e Ricerca, rispondevano a due diversi aspetti del lavoro da fare; l’una, la struttura, si riferiva all’interazione fra i diversi settori nei quali si sarebbe articolata la mostra e alle modalità del suo svolgersi lungo un percorso portante a un certo risultato di fatto. Un lavoro cioè di impostazione coerente per l’iter di una libera ma ben motivata ricerca.
La ricerca avrebbe a sua volta spaziato e colto al volo, riferiti a un progetto e a finalità ben definite, fonti, oggetti, contatti, strumenti, informazioni, accesso a istituti scientifici di ricerca, le più recenti esperienze dell’underground statunitense, la Gestalt ecc...
Da qui, "Egostrutture 1", un film che come recita il prologo iniziale: "Ce film propose une nouvelle conception du reel fondee sur un modele structural psychobiologique unitarie et constant, a travers lequel l’univers et l’homme deviennent une seule chose" (9), firmato O.G.V. Piccardo, esprime la sua personalissima teoria trinitaria, paragonata a quelle finora formulate nel corso dei secoli dai più importanti scienziati, filosofi e matematici di tutti i tempi.
A questo ne seguì un altro, il sardonico "La rivoluzione" (1973), citato nel Bendazzi e scordato dallo stesso autore il quale ricordò che rimase incomputo.
Da allora Osvaldo Piccardo, pioniere e precursore, cui dobbiamo quelle geniali intuizioni nel prevedere i tempi, vive con la moglie Eva nella sua piccola casa di Rocca D’Arazzo e con loro tutti i ricordi e i segreti alchemici che lo hanno visto protagonista di un intero secolo di cinema disegnato in Italia.

Note:
(1)
Marcello Piccardo, La collina del cinema, NODO libri, Como, 1992, pp. 192
(2)
Walter Alberti, Op. Cit., p. 152
(3)
Giulio Cingoli, Il cartone animato lombardo dalle origini agli anni’70, in Arrivano i video, promosso dalla ‘Direzione Generale Cultura’ della Regione Lombardia
(4)
E’ interessante notare che sia Piccardo sia Cavandoli figuravano anche nello statuto di Isca tra i soci fondatori.
(5)
Lettera di Osvaldo Piccardo ad ISCA INFORMAZIONI, datata 1 ottobre 1973
(6)
Gianni Rondolino, Storia del cinema d’animazione, Einaudi, Torino 1974, p. 302
(7)
Il film in questione si chiama Egostrutture 1, perché doveva essere il primo di una serie che trattava argomenti del genere, ma non ebbe seguito.
(8)
Giannalberto Bendazzi, Cartoons. Il cinema d’animazione 1888-1988, Marsilio Editori, Venezia, 1998
(9)
Il prologo fu scritto in francese perché pensato in funzione della presentazione ad Annecy del suddetto film.

Fonte:http://www.cinemino.info/?p=4264

Pensiero Uno - Quando toglierai l’ansia dal nostro cuore?

"Ricorreva a Gerusalemme la festa delle Encenie. Pioveva, e Gesù passeggiava nel Tempio sotto il portico di Salomone, quando i Giudei si raccolsero intorno a lui e gli domandarono: “Quando, dunque, toglierai l’ansia dal nostro cuore? Se tu sei il Cristo dillo a noi apertamente". E Gesù rispose: "L’ho già detto, e voi non credete. Le opere che io compio in nome del Padre, testimoniano per me; ma voi non credete perché non fate parte del mio gregge. Le mie pecore ascoltano la mia voce, e io le conosco. Esse mi seguono, e io do loro la vita eterna: non moriranno mai, e nessuno le porterà via dalle mie mani. Il Padre mio, che me le ha date, è al di sopra di tutti; e nessuno può strapparle dalle sue mani. Io e il Padre siamo una sola cosa". I Giudei presero ancora una volta delle pietre per lapidarlo. E Gesù si rivolse a loro dicendo: "Io vi ho mostrato molte opere buone fatte per virtù del Padre: per quale di queste opere volete lapidarmi?". I Giudei risposero: "Noi non ti vogliamo lapidare per le buone opere compiute, ma per la bestemmia contro Dio, e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio". Gesù rispose: "Non è scritto nella vostra legge: Io ho detto: Voi siete dèi? Se, dunque, la Legge chiama dèi coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio (e la Scrittura non può essere smentita), come potete dire voi che io, consacrato dal Padre e inviato nel mondo, bestemmio perché ho detto: - Io sono Figlio di Dio -? Se non compio le opere del Padre mio, voi non mi credete; ma se le compio, anche se voi non volete credere a me, credete almeno alle opere: saprete così e riconoscerete che il Padre è in me, e che io sono nel Padre".


(Vangelo di Giovanni, X, 22-38; trad. di S. Quasimodo)


Quel 25 dicembre di un anno imprecisato, i giudei che si rivolgono a Gesù nel portico di Salomone, avanzano una richiesta terapeutica del tutto simile a quella che ancora oggi viene formulata nell’ambito del setting psicoanalitico. La cosa risulta ancora più evidente se ci rivolgiamo al testo greco originale. Infatti la richiesta che viene tradotta “Quando, dunque, toglierai l’ansia dal nostro cuore”, letteralmente suona così: “Quando, dunque, solleverai il nostro animo (ψυκην)?” La psiche è quindi l’oggetto dell’intervento terapeutico richiesto a Gesù. Non si chiede la guarigione da una qualche infermità del corpo, e neppure di salvare un moribondo o di resuscitare un morto. Si chiede di sollevare la psiche, di liberare il cuore dal peso dell’ansia e dell’angoscia esistenziale. I pazienti chiedono ed il Maestro risponde; ma la risposta non viene accolta. Il rapporto terapeutico si interrompe con i pazienti che raccolgono sassi per scagliarli contro il Maestro. Qual’è la terapia che Gesù offre ai giudei che lo interrogano, pur sapendo che non sarà accolta? Egli, sapendo che la sofferenza è frutto della pur necessaria separazione realizzatasi con la coscienza adamica, indica la via della riunificazione degli opposti: “Io e il Padre siamo una sola cosa”, ma questa indicazione non può essere compresa da chi non fa parte del gregge, cioè da coloro che non sono portatori della coscienza cristica. Gesù appare estremamente consapevole del fatto che può riconoscere soltanto chi già conosce in se stesso, eppure continua a rivolgersi anche a coloro che non conoscono in se stessi. Perché? E’ proprio il rivolgersi a coloro che non possono comprendere che porterà Gesù sulla croce; ma ciò era evidentemente necessario affinché la strada fosse indicata, affinché un pre-esistente percorso esoterico, divenendo infine essoterico, potesse universalizzarsi. Gesù, quando allude alla sua imminente crocifissione, parla infatti di “elevazione”, “sollevamento da terra” (υψοω), per alludere al fatto che se si vuole che tutti vedano una qualche cosa, occorre sollevarla da terra. Inoltre, la coscienza cristica, cioè la terapia che Gesù addita all’umanità tutta, consiste nel consapevolizzarsi della condizione di lacerazione che comporta l’essere inchiodati ad una croce. Una croce il cui braccio orizzontale è l’immanenza, cioè la condizione materiale, e il cui braccio verticale è la trascendenza, cioè la condizione spirituale. Infatti, se l’essere, nell’uomo, si vede in croce, potrà successivamente scenderne. Ne scenderà morendo a quella condizione di crocifissione per rinascere ad una condizione di maggiore consapevolezza. La rinascita si realizza quando il soggetto, vedendosi in croce e riflettendo sul suo vedersi, sposta la propria identità dal visto al veggente. Così come accade durante il percorso psicoanalitico, quando chiediamo al cosiddetto paziente di non identificarsi con le sue stesse oggettivazioni, ma di spostare tutta la sua identità nella funzione riflessiva. Ma tutto questo, che oggi per noi è qualcosa di immediatamente comprensibile, quel giorno di dicembre di 2000 anni fà era un fatto ancora pionieristico. La stessa necessità della crocifissione concreta sottolinea che Gesù, più che indicare una soluzione, indica la via per giungere ad una soluzione. Inizia cioè il processo di cristificazione universale attraverso cui l’Essere diventa sempre più consapevole di se stesso. Con Gesù la vicenda viene vissuta sul piano dell’immediatezza, la tensione conoscitiva viene, per così dire, agita senza rifletterla. Giovanni, successivamente, riflette sulla esperienza di Gesù: con lui l’Essere si consapevolizza dell’unitarietà di se stesso, ma ancora su di un piano solamente coscienziale. Giovanni è perfettamente consapevole che il processo di sintesi unitaria deve coinvolgere la totalità dell’Essere, che tutto deve avvenire nella carne e non solo nell’astrattezza simbolica; la dimensione materiale, l’oggettualità tutta del mondo deve cristificarsi, ma i tempi non sono ancora maturi. Infatti la donna, e con lei il femminile di Dio, è ancora muta e imprigionata nell’oggettualità. Oggettualità nella quale la confina il maschile e in cui lei stessa ripone la propria identità. Con la psicoanalisi, come ben sappiamo, dopo Freud, Jung e Montefoschi, che costituiscono le tappe preliminari del processo attraverso cui l’inconscio e quindi l’oggettualità tutta diventa sempre più consapevole di sé, Silvia si costituisce come soggetto dialogante al cospetto di Giovanni. Con la nascita del nuovo soggetto dialogante in se stesso: Giovanni/Silvia, si compie il processo di cristificazione universale, in quanto l’Essere non si dà più nella dialettica soggetto/oggetto, bensì nel dialogo d’amore interno all’Uno. In questo senso, allora, l’evento accaduto 2000 anni fà rappresenta l’inizio di un processo terapeutico che ha avuto termine con la guarigione dell’Essere Uno dalla sua originaria spaccatura. Una guarigione avvenuta dieci anni fà con l’incontro consapevole di Silvia e di Giovanni. L’analisi, attraverso cui l’inconscio viene portato alla coscienza, è terminata poichè l’inconscio s’è fatto tutto consapevole di sé. L’analisi in quanto recupero all’interno del soggetto unico di quanto egli stesso aveva posto fuori per conoscerlo, è terminata, poiché il soggetto ha recuperato in sé tutta l’oggettualità fattasi consapevole, e nel far ciò, il soggetto unitario, si è infine consapevolizzato della sua primitiva dualità. Come è scritto in “Alle soglie dell’infinito”, “oggi l'analisi, nel nuovo significato che il termine assume, torna ad essere interminabile così come è interminabile, cioè infinito, l'amore reciproco che ci attraversa e nel quale ci siamo riconosciuti. L'amore vuole amare veramente, radicalmente, concretamente, senza che vi sia più separazione, senza alcun termine: da sempre e per sempre. La nostra opera ora solo in questo consiste: far sì che i nostri pensieri ed i nostri corpi siano materialmente l'unico corpo e l'unico pensiero.” La psicoanalisi di cui noi oggi trattiamo è dunque qualcosa di assolutamente nuovo rispetto alla cosiddetta psicoanalisi “ufficiale”. Quest’ultima cerca ancora, applicando i vecchi modelli interpretativi e quindi oggettivanti, di capire e trasformare l’altro. Ma, dal momento in cui l’evoluzione sè data una forma nuova nel soggetto duale quale nuovo Vivente, è venuta a mancare, fra coloro che non hanno compiuto il salto evolutivo, la forza coesiva verso la visione sintetica che caratterizza appunto il procedere dell’essere nel suo sviluppo evolutivo. E poiché gli uomini hanno perso il riferimento comune che li metteva in grado di comprendersi e di amarsi, anche la psicoanalisi, che era l’ambito dove la tensione erotico-conoscitiva univa i due del discorso, non è più in grado di operare alcuna sintesi. Assistiamo allora all’espandersi della frammentazione fra individui sempre più incapaci di relazionarsi. L’evoluzione appunto, che per l’umanità è sostanzialmente evoluzione del proprio livello di consapevolezza, ha abbandonato la stazione del “sistema uomo”, e poiché la dimensione relazionale e sociale trova il suo senso soltanto nella tensione evolutiva, la relazionalità e la socialità, prive di un riferimento sovraordinato, prive cioé di un senso, stanno rapidamente deteriorandosi. E poichè il treno è partito, coloro che si riconoscono sul treno, altro non possono e vogliono fare che testimoniare la loro nuova condizione, che poi è quella del loro infinito dialogo d’amore intersoggettivo. Ma la testimonianza di cui parliamo non consiste nel testimoniare all’altro fuori di noi, ripristinando quindi la separazione, bensì nel trattare in noi tutto ciò che accade. Quindi oggi il Vivente testimonia di sé a se stesso, teso a realizzare una pienezza perfetta eppure, al tempo stesso, infinitamente perfettibile. Nella misura in cui noi facciamo questo, di fatto accogliamo l’altro dentro di noi, portandolo nel cuore del Vivente; di fatto il nostro dialogo d’amore è la redenzione dal peccato originale della separazione. A volte vecchie memorie tornano ad affacciarsi alla mente: è il Vivente che sfoglia l’album delle foto di famiglia, aspettando che la memoria di un esterno e di un interno, di un prima e di un poi, di un noi e di un altro, pian piano scompaia, così come accade ad un sistema non più stabilizzato da quello immediatamente superiore.

Mario Mencarini

http://www.mariomencarini.it/www.mariomencarini.it/quando.html

Pensiero Uno oltre la psicoanalisi

Nell'incontro tenutosi a La Spezia il 5 giugno 2010, Bianca Pietrini e Fabrizio Raggi hanno relazionato sulla loro ultima pubblicazione “Il manifestarsi dell’essere in Silvia Montefoschi” .

Ciò che si narra nel libro, “Il manifestarsi dell’essere in Silvia Montefoschi”, è la storia del percorso che il pensiero ha fatto in Silvia Montefoschi, vista alla luce del punto di arrivo del percorso stesso; visione questa che ha permesso di cogliere la continuità di senso dell’intero discorso che si è svolto nella successione di numerosi libri.
Ma ciò che vogliamo esplicitare, con la presentazione di questo libro, è il senso che ha avuto, per Silvia, Bianca e Fabrizio, il loro stesso scriverlo: senso che è l’esperienza vivente della visione sintetica del pensiero uno, ovvero dell’essere, che è tutto ciò che è così come è nel momento in cui è.
Un tempo, non molto lontano da oggi, l’uomo, perché così l’essere si vedeva e così era, inneggiava: “W la difference” come fosse il momento di grande arricchimento, il punto basilare per diventare cittadini del mondo. Differenza che l’uomo sapeva in tutte le forme viventi e che riconosceva quale elemento portante il processo evolutivo delle forme stesse.
Se ogni forma vivente è intenzione fattasi azione che proprio nell’azione si manifesta forma pensante quale vivente, è nell’uomo che l’intenzione, che in lui opera, si fa azione nel pensare.
Quanto nell’animale è azione nel pensiero agito, per esempio si pensi al leone che insegue la gazzella per potersi cibare o si unisce alla leonessa per procreare, viceversa nell’uomo è azione nel pensare.
L’uomo per millenni si è confrontato con quanto in lui si dava istintivamente, quale residuo della sua condizione animale, e ha operato al suo contenimento dando vita a nuove forme, quali espressioni del suo così riflettere di quanto in lui si veniva pensando.
Si pensino: i graffiti nelle caverne; lo stesso bisogno di cibo che nell’uomo è divenuto cultura, nell’accezione dell’agricoltura e nell’accezione di riti o miti che hanno accompagnato e scandito il tempo della semina, del raccolto e del riposo; la scienza, la filosofia, l’arte e la tecnica che nel loro evolversi hanno scandito il divenire di tutta la storia umana.
Si pensi dunque al contenimento che nell’uomo si è compiuto, perché così nell’uomo urgeva, e lui lo ha realizzato. Il contenimento di tutte le pulsioni che se nell’animale si danno nell’immediatezza nell’uomo diventano oggetto di riflessione e di comprensione delle pulsioni stesse nelle quali si esprime tutta la dinamica dell’essere.

In tutte le forme pensanti, però, uomo compreso, non possiamo che riconoscere che un punto unificante: l’interdipendenza quale unica modalità relazionale di tutte le forme viventi.
A questo proposito ci sembra esplicativo il seguente proverbio africano:
ogni giorno il leone si sveglia e sa che dovrà correre più della gazzella altrimenti morirà di fame. Ogni giorno la gazzella si sveglia e sa che dovrà correre più del leone altrimenti verrà uccisa. Non importa che tu sia leone o gazzella. Comincia a correre.
Da ciò possiamo comprendere non solo che la vita nasce e cresce sulla morte ma che fra leone e gazzella c’è una relazione interdipendente fra colui che insegue e colei che è inseguita.
La stessa cosa avviene tra i soggetti umani i quali devono difendere non soltanto la sopravvivenza della loro forma corporea ma anche la loro identità egoica, per difendere la quale si riconoscono ciascuno come soggetto pensante facendo dell’altro l’oggetto del suo pensiero e quindi del suo potere.
E questa separazione tra soggetto pensante ed oggetto pensato è per l’umanità l’unica modalità relazionale che determina la separazione dei ruoli; separazione che è stata istituzionalizzata nel momento stesso in cui si è costituita l’organizzazione sociale umana.
Il sentirci dipendenti da.. l’essere condizionati da.. è una dimensione che appartiene all’uomo come la pelle che delimitando la sua forma lo fa esistente proprio in quanto separato dal resto del reale.
In prima battuta dipendiamo da mamma, papà, l’amico e il nemico, ma in ultima battuta ci riconosciamo tutti come dipendenti dall’imago di un padre universale chiamato dio e dall’ imago universale di una madre chiamata natura.
A causa di ciò gli uomini hanno da sempre vissuto la drammaticità di due dimensioni: quella del noumenico, o intelligibile, quella cioè del pensiero puro in cui si riconoscono come pure essenze pensanti, e quella del fenomenico, o sensibile in cui si riconoscono come corpi materiali in rapporto ad un mondo altrettanto materiale.
È ancora nell’uomo che l’intenzione si è fatta riflessione su come superare questa radicale contraddizione; cosa questa che gli uomini, quali pensanti, hanno tentato di realizzare ora negando il fenomenico, liquidandolo come pura illusione dei sensi, ora negando il noumenico, considerandolo un’astrattezza priva di consistenza proprio in quanto non esperibile nella concretezza sensoriale.
Se ripercorriamo le vie intraprese dall’uomo, da quelle più nefaste a quelle più esaltanti, non possiamo che riconoscere che, in ognuna delle diverse vie intraprese, viene mantenuta ferma la separazione sostanziale fra un esserci e un non esserci, la dove l’esserci è un soggetto e il non esserci è un oggetto, o viceversa.

In coloro però che seguono la voce che in loro si dice si sa di una distinzione, fra soggetto e oggetto, in cui essi stessi sono divenuti oggetto di un soggetto in loro.
Jung, nel “Libro rosso”, ci testimonia l’angoscia, il dolore, la gioia che l’uomo affronta nell’accettare quanto lo spirito del profondo impone alla coscienza umana e che l’uomo non può che accogliere, a dispetto di quello che lui chiama: lo spirito del tempo.
Jung scrive: … lo spirito del profondo mi costrinse a parlare alla mia anima come a un essere vivente ed esistente di per sé. Dovetti riconoscere che avevo perduto la mia anima … e ancora ci spiega che lo spirito del profondo vede l’anima: … come un essere vivente ed esistente di per sé, e con questo egli contraddice lo spirito del tempo, secondo il quale l’anima è una cosa dipendente dall’uomo, che si lascia giudicare e manipolare, e di cui possiamo dare un significato esaustivo.
Dovetti accettare che ciò che avevo precedentemente chiamato la mia anima non era affatto la mia anima, ma un sistema morto. Per questo dovetti parlare alla mia anima come a qualcosa di lontano e sconosciuto, che non esisteva grazie a me, ma grazie alla quale io esistevo … .
Jung , abbandonata la ricerca fuori di sé, seguì lo spirito della profondità che in lui si diceva, l’anima del mondo che è in tutti e che sola permette di dare unità a quanto è separato e insensato.
Sempre nel “Libro rosso” Jung scrive: … Sono stanco, anima mia, il mio vagabondaggio, la ricerca di me stesso fuori di me, è durato troppo a lungo.
… Io andavo per le vie del quotidiano, e tu invisibilmente venivi con me, mettendo insieme i pezzi in modo da avere un significato, e facendomi vedere il tutto in ogni parte…
… Finalmente imparerò che la mia anima sta dietro a ogni cosa, e se io vado per il mondo, in ultima analisi lo faccio solo per trovare la mia anima … .

Qui muta radicalmente la relazione dell’uomo con l’altro fuori, sia esso l’altro soggetto umano, l’esistente tutto o il pensiero unico ; l’altro non è più colui dal quale dipendiamo o che da noi dipende ma diviene colui grazie al quale, sempre secondo Jung, è possibile realizzare il dialogo con l’anima, lo spirito della profondità.
L’altro uomo diviene potenzialità, stimolo al dialogo interiore con l’anima a sua volta espressione dello spirito della profondità che comprende in sé tutto il tempo umano.
Si fa qui chiara e certa la continuità del pensiero che pur essendo in ogni uomo è oltre l’uomo stesso. In luoghi per così dire “atei” si fa presente una nuova istanza ‘il divino nell’uomo’.
È sempre Jung, testimone, in tutta la sua opera, dell’esistenza umana che trascende la vita particolare per abbracciare quella storica universale, che esplicitamente testimonia la ricerca e il ritrovamento del divino nell’uomo nel momento in cui l’anima così a lui si rivolge:
… tu dovresti essere lui stesso, non un cristiano ma Cristo, altrimenti tu non sei di nessuna utilità per il Dio che deve venire … A nessuno può essere risparmiata la via di Cristo, poiché questa via porta a ciò che deve venire. Voi tutti dovete diventare Cristo .
Ma in Jung, pur affidandosi allo spirito della profondità, facendosi così portatore di nuova coscienza, rimane il pudore che si fa nascondimento di quanto avvenuto in lui. Egli, infatti, diffida di pubblicare il libro del suo dialogo interiore avvenuto durante la sua intera esistenza e affida la pubblicazione del “Libro rosso”, la sua vera eredità al mondo, a dopo la sua morte.

In Montefoschi, viceversa, il dialogo interiore, quale presenza alla presenza dell’essere che in lei parla, è già dalla sua nascita, e questo proprio in quanto la mutazione che in Jung era iniziata già si era, in Montefoschi, portata a compimento.
Da ciò è facile comprendere che per Montefoschi, quale mutata, la presenza dell’essere in lei, del divino in lei, che per Jung era eccezionalità soggettiva e quindi anche dubitabile sul piano oggettivo, è viceversa certezza indubitabile che, naturalmente, in verità, si fa parola nella parola che in lei si dice.
Tutte le manifestazioni della sua esistenza sono infatti coerenti nel seguire la verità che in lei si svela assolutamente indifferente allo scandalo che tutto ciò può suscitare.
È proprio alla luce di ciò che possiamo accogliere quanto si legge nel prologo del libro che oggi vi proponiamo. Così nel prologo si dice:
“Quanto viene narrato in questo scritto, pur trattando la storia dell’essere che dal suo primo manifestarsi come esistente nell’evoluzione dell’universo realizza infine la consapevolezza di sé quale unico vivente, che è tutto ciò che è al di là di ogni distinzione tra essere e esistente, è anche la biografia di Silvia Montefoschi, la cui esistenza è stata appunto, nella sua piena consapevolezza, l’attuazione dell’essere che in lei si manifestava, sia nel pensiero sia nel comportamento, assolutamente coerente al pensiero stesso .
La storia della vita di Silvia Montefoschi è pertanto tutt’uno con quanto ella stessa ha scritto, come sotto dettatura, dell’evolversi del pensiero uno che in lei si faceva manifesto; e ciò non soltanto perché il suo scrivere è stato l’unico senso della sua esistenza, ma soprattutto perché la sua esistenza è stata soltanto l’attuarsi assolutamente coerente di quanto in lei il pensiero veniva manifestando, al di là di ogni possibile contraddizione.”
E qui, per maggiore chiarezza, aggiungeremo che questa coerenza si dà nel senso che qualsiasi evento si sia dato nell’esistenza di Silvia Montefoschi doveva darsi proprio così come si è dato, al di là di ogni apparente contraddizione, in quanto momento necessario del percorso che in lei l’essere veniva facendo per realizzare la visione di sé come uno, in cui non si dà come possibile un suo contraddirsi essendo l’uno tutto, tutto ciò che è.

Ciò che ha sostenuto Montefoschi in questo percorso è l’amore, che se da una parte è l’amore per l’interlocutore interiore: il suo vero e unico amante, si fa anche il dolore che si trasmuta nella ricerca dell’altro.
E ciò perché la donna lo sa, nel sapere che in lei si fa certezza, quando è l’essere che in lei si dice, che l’amore senza l’altro concreto della relazione non è compiutezza dell’amore stesso.
Perciò la donna che ha perso o mai avuta la presenza esterna dell’altro a lei essenziale per sentirsi esistente, proprio nel suo rispecchiarsi nell’altro, non può che ricercare con l’altro reale e concreto ciò che in lei urge come verità d’amore, ovvero la realizzazione dell’interlocutore interiore quale anelito dei due a tornare uno.
E per Silvia Montefoschi la ricerca non è così affannosa perché se Jung nel percorso era assolutamente solo, la nuova parola, incarnata in Montefoschi ed in lei fattasi consapevolezza, ha trovato puntuale eco in coloro con i quali si incontrava.

E ciò non deve stupire in quanto come sosteneva Teilhard De Chardin: le funzioni riflessive tendono a congiungersi. Per cui tutti coloro che, realizzata la mutazione, vengono a trovarsi a un livello di riflessione più elevato rispetto a quello del soggetto riflessivo individuale, e da questo livello danno voce alla parola che in loro riflettono, magari anche inconsapevolmente, essi non possono che naturalmente con lei e fra di loro incontrarsi.

E così la relazione con l’altro perde la funzione strumentale propria di tutto il relazionarsi umano. Infatti, l’interdipendenza, che permette ai soggetti riflessivi individuali, fra loro in relazione, di sentirsi esistenti nel reciproco rispecchiamento delle loro identità identificate con i ruoli, si fa, nella intersoggettività, la reciproca garanzia per sentirsi parti integranti dell’unico spirito profondità.

Così Montefoschi, fattasi presenza consapevole, si apre alla presenza dell’altra presenza nell’ è, nei tanti incontri con l’altro.
Gli altri possono essere tanti e tanti possono anche essere i dolorosi addii ma, poiché l’essere è amore e vita, in colei o colui in cui l’essere ha preso consapevolezza di sé rimane la certezza “dell’amore che ama l’amore” e “della vita che ama la vita” e allora anche gli addii, pur nel dolore, diventano continuità nell’affidamento all’inaspettato che sempre è fecondo.

Come vediamo muta, e questa volta radicalmente, la relazione con l’altro e quindi la relazione di ciascuno in sé.
Se per Jung l’esperienza con l’anima mantiene il sapore di immagine simbolica, in Montefoschi, viceversa, la presenza interiore si fa esperienza di una realtà vera e concreta in sé e fuori di sé.
In Jung l’anima, l’inconscio collettivo, è la storia creativa realizzata dall’umanità che ogni uomo porta in sé e che ogni soggetto umano rinnova nel realizzare in sé quella parte di inconscio collettivo che egli vede e che attua nel suo processo individuativo.
Allora in un dato momento storico l’inconscio collettivo è il mosaico in cui i tasselli sono le varie parti dello stesso toccate in sorte a ciascun individuo.
Per Silvia Montefoschi viceversa, l’inconscio collettivo non è la storia dell’umanità ma è la storia di tutto l’universo a partire dalla sua origine, storia inscritta nel codice genetico dell’umanità stessa.
Tale consapevolezza ha avuto inizio quando Montefoschi, per dare risposta alla ricerca del divino che sentiva forte in lei, aveva intrapreso attività di ricerca quale biologa.
È durante questa attività che vedendo la meravigliosa armonia dell’universo articolarsi in forme sempre più evolute, e di cui ella stessa si sentiva parte integrante, comprende chiaramente che la realtà è, gli avvenimenti sono, non sono un’immagine creata dall’uomo, bensì l’uomo è l’occhio tramite il quale la realtà tutta si vede.
Ma la voce in lei le diceva che continuando a contemplare il pensiero, quale dinamica che muove la storia tutta dell’evoluzione, soltanto nel suo aspetto esterno ella non prendeva in considerazione che proprio il pensiero è il pensare di un soggetto che pensa e che quel soggetto è proprio quella presenza che a lei si svelava come testimone dell’infinito.
Montefoschi si dedicò così alla riflessione psicoanalitica che è per eccellenza il metodo conoscitivo della ricerca interiore.
Durante tutto il percorso fatto, Montefoschi ha sperimentato che la dimensione così detta inconscia, quale progettualità storica di un dato momento dell’umanità, è la realtà vivente del momento storico in cui si dà.
Il sogno prospettico è la realtà del movimento trasformativo che l’umanità sta vivendo in un dato momento.
È così che, sempre Montefoschi, nel narrare la storia della grande trasformazione del nostro tempo, non si riferisce più ai tanti processi individuativi personali bensì ad un unico processo individuativo: il processo individuativo dell’essere uno che manifesta se stesso nelle tante voci che, dialogando tra loro, compongono un coro.
Allora il processo conoscitivo dell’essere viene così a coincidere con la vicenda esistenziale di ogni individuo, la quale non si dà se non nella concretezza del suo esserci al mondo, nella sua corporeità, in cui l’essere nel conoscere se stesso ha preso forma.
È a questo punto del percorso conoscitivo, di Montefoschi e della presenza che pensa in lei e con lei, che appare chiaro ai due che i messaggi che dall’inconscio dei soggetti umani emergono alla coscienza non riguardano più soltanto la storia dell’umanità, ma la storia dell’essere dal momento del suo primo manifestarsi.
È così che in Montefoschi l’uomo ritrova le sue origini. È a questo punto che tutto si riordina.

Infatti ...
Se Montefoschi, quale biologa, aveva visto l’universo in un progressivo evolversi di sistema in sistema in cui ogni forma trova il suo senso e si ordina in funzione al sistema sovraordinato, è con la psicanalisi che la meravigliosa esperienza dell’armonia cosmica si apre all’uomo.
La vita del singolo uomo si ordina in funzione al sistema sovraordinato che in sé lo comprende, e che è il sistema sociale.
Il sistema sociale, a sua volta, si ordina in funzione di un sistema sovraordinato che è il sistema cosmico, cosicché l’uomo viene a coincidere con esso.
Ma il punto ultimo di arrivo dell’evoluzione della coscienza umana è che anche il sistema cosmico si ordina in funzione di un sistema ad esso sovraordinato, che è l’uno come totalità dell’essere con cui il singolo uomo dovrebbe arrivare a sentirsi tutt’uno.
È Montefoschi che, grazie alla scoperta del vero metodo psicoanalitico che è quello della riflessione, sempre insieme a colui che con lei pensa, comprende che se la legge che governa il progressivo conoscersi dell’essere è il ripetuto salto su piani sempre più elevati di riflessione in un susseguirsi di sistemi ognuno dei quali ricapitola in se tutto il percorso fatto, allora il soggetto umano, che è la forma reale e concreta che sa di sapere di se come pensante, è la riflessione di tutto il pensiero che si dà nella forma corporea materiale umana che in sé non può che riassumere tutto il processo evolutivo vivente.
Così come la coscienza è il luogo dove l’inconscio discorre di sé.
Allora, essendo l’uomo il punto di arrivo dell’evoluzione dell’essere, e cioè il piano di coscienza dal quale l’essere vede se stesso, quanto l’uomo vede nel riflettere su di sé, non può essere che tutta la storia dell’essere sin dalla sua origine; storia che, inscritta nel codice genetico, all’uomo si palesa proprio nel dirsi dell’inconscio.
L’inconscio collettivo è, dunque, il codice genetico in cui è inscritta tutta la storia dell’evoluzione dell’universo.
È stato proprio con la psicanalisi, quale analisi dell’inconscio, che tutti i contenuti dello stesso, cioè le informazioni genetiche che via via venivano portate alla coscienza, grazie alla luce della riflessione, cessano di essere inconsce e diventano la realtà vera dell’esperienza che l’uomo fa nel quotidiano.

A questo punto l’inconscio si esaurisce perché tutta la progettualità dell’essere, che si dava ancora inconsapevole di sé nel soggetto umano, si è fatta consapevolezza dell’unica sola realtà vivente che è poi quella narrata da Giovanni e Silvia nel loro dialogo e che ha composto l’intero discorso di tutta l’opera scritta .
E questa sola realtà vivente è l’uno che si è realizzato nell’unione di Giovanni e Silvia nel momento in cui, al termine di tutto il percorso, si sono riconosciuti l’un l’altro come veri e reali soggetti viventi al di là della percezione sensoriale quale presenza al cospetto della presenza e quindi uniti nel loro quotidiano come se fossero una persona in due persone, al di là dello spazio e del tempo, pur nello spazio e nel tempo.

A questo punto, prima di concludere, vorremmo brevemente mettere in luce quanto segue e cioè che nella storia della coscienza umana quale momento, essa stessa, dell’evoluzione di tutto l’esistente dall’origine sino ad oggi, due sono stati i passaggi fondamentali.
Il primo passaggio è stato quello dalla coscienza adamica, che sancisce la netta separazione del divino dall’umano, alla coscienza cristica, quella che vede la consustanzialità tra uomo e dio anche se solo quale fatto spirituale ovvero del pensiero altro dalla vita concreta.
Evento questo, della manifestazione della coscienza cristica, subito ricondotto all’interno della logica dominante, quella della coscienza adamica, che sancisce, attraverso lo strumento del dogma istituzionalizzato, il principio secondo il quale Cristo è stato un fatto unico, divino che trascende la vita umana ed irripetibile.
Il secondo grande passaggio, che è l’attuale, è quello dalla coscienza cristica alla coscienza unitaria, di cui questo libro è testimonianza; coscienza in cui si realizza, come realtà concreta, l’identicità tra il divino e l’umano, al di là della separazione tra lo spirito e la materia, tra il pensiero e la vita.

Tutto ciò, necessariamente, comporta un lavoro quotidiano.
E il lavoro fondamentale, basilare, che ci sostiene lungo tutto il percorso, è il superamento della identità individuale e il riconoscere che la vita, quella specificamente umana, è tutt’uno con l’unica dinamica che ha dato origine a tutto ciò che è. Unica dinamica che ha sostenuto la progressiva evoluzione dalle prime particelle di materia e antimateria, ai protoni, atomi e molecole che per primi hanno popolato l’universo, sino alla molecola che, nel sapere di sé come un tutto distinto dal resto del reale, si è riconosciuta come vivente, per arrivare, passando attraverso il regno vegetale e animale, sino all’uomo quale forma vivente che sa di pensare.
E l’attuazione della coscienza unitaria, nella vita concreta di coloro che già ne portano in sé la potenzialità, comporta la radicale trasformazione del loro esserci in rapporto con tutti gli aspetti della realtà: siano essi gli eventi della vita, le relazioni che si danno di volta in volta con l’altro: il compagno o la compagna, il figlio o la figlia, o il genitore o l’amico; la trasformazione del rapporto con il proprio corpo: dalla sessualità alla malattia sino alla morte; nonché per ultimo, la trasformazione radicale del setting psicoanalitico.

Terminiamo con un messaggio onirico, giunto recentemente, che esprime sinteticamente quanto appena detto:
“Si sta levando un vento fortissimo che alza il mare; la sognatrice vede, lungo la via, le tante piccole case di fronte e, attraverso ogni finestra, le scene famigliari che si ripetono, uguali, in ogni casa: le persone sedute a tavola, la televisione accesa, la luce della lampadina, i figli che giocano.
La sognatrice pensa, con apprensione: si accorgeranno di quello che sta per succedere!
Arrivano il vento forte e le onde potenti del mare; la sognatrice, dalla finestra della sua casa osserva quanto sta accadendo; socchiude gli occhi e quando li riapre, vede che intorno non c’è più nulla, però tutto è più bello, tutto rinato a nuova vita.”